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il Natale del cuore di Ivan BATTISTA

Accademico Alessandro Ivan Battista

IL NATALE DEL CUORE

di

Ivan BATTISTA

 

Lo scrittore Philip van Doren Stern pubblica a sue spese nel 1943 un racconto di poche pagine dal titolo The greatest gift, Il dono più grande.

Tutti sappiamo ormai quanto lo stress e i cattivi sentimenti ad esso legati siano nocivi per la salute e per quella del cuore in particolare. L’aumento della secrezione del cortisolo (l’ormone soprannominato killer per la sua implicazione nell’abbassamento dell’immunocompetenza) è una delle più conosciute e dannose conseguenze legate alla carenza di amore ricevuto e dato. Sì, perché non solo chi riceve amore, ma anche chi sa donarlo ha in cambio come “grande dono” una qualità della vita ed un benessere fisico migliori e più gratificanti. Per lo stesso motivo le statistiche ci dicono che i felicemente accoppiati vivono meglio e più a lungo dei single.

        Dal bellissimo racconto di van Doren Stern, in poche parole, l’indimenticabile regista Frank Capra, con i suoi sceneggiatori Frances Goodrich e Albert Hackett, con scene addizionali rispetto al racconto lavorate da Jo Swerling, ci tira fuori il film dal titolo It’s a wonderful life, La vita è meravigliosa. La pellicola è interpretata da un cast d’attori straordinariamente bravi tra cui i protagonisti James Stewart (l’architetto idealista George Bailey) e Donna Reed (la moglie Mary Hatch). La pellicola riceve ben cinque Oscar e si piazza nella classifica definitiva dell’American Film Institute come il miglior film d’ispirazione di tutti i tempi. È il film di Natale. Io lo rivedo tutti i Natali ed ogni volta mi commuovo, pur conoscendo ormai a menadito la trama e addirittura le batture di ogni attore. Cosa ci insegna il sensibilissimo van Doren Stern? Una lezione che in molti tendiamo a dimenticare nel corso degli altri trecentosessantaquattro giorni dell’anno, ma che la notte di Natale l’istruttivo e struggente film di Capra, tratto dal suo racconto, ci ricorda: la vera ricchezza della vita non consiste in ciò che troviamo sotto l’albero, ma in ciò che abbiamo intorno ad esso!

La gioia, quale “dono più grande”, non consiste tanto negli oggetti che ci vengono regalati quanto nell’amore che siamo in grado di offrire e di ricevere. Per quanto sia difficile tenere a mente tutti i giorni questi precetti nella vita frenetica e crudele che viviamo, dovremmo tutti sforzarci di ricordare che il Natale del cuore fa del bene non solo a noi stessi, ma anche e soprattutto agli altri. Gli “Altri” siamo noi: il cerchio si chiude; non dovremmo mai dimenticarcene. Il Natale non è solo la nascita di nostro Signore Gesù; il Natale è un archetipo; è la festa della famiglia, intesa anche nella sua accezione più ampia. Nessuno dovrebbe stare solo la sera di Natale, nessuno, nemmeno il più reietto degli esseri umani. Ognuno dovrebbe poter ricevere un frammento scintillante del bene globale che la vita racchiude in sé, purtroppo insieme a tante altre cose più oscure e meno luminose. Perché è questo bene inarrestabile, energia pura e naturale a moto perpetuo, che ci ha salvato e non ci ha fatto ancora estinguere come specie. Questo è il significato più profondo del Natale: l’amore. Noi staremo meglio e saremo più “ricchi”, il cuore scandirà il tempo nel nostro petto con migliori risultati, quanto più amore saremo in grado di riscuotere e di donare. Non il denaro, né la fama, né il potere, ma l’amore semplice, oblativo e disinteressato, che il Natale col suo emozionante miracolo, ogni anno, ci riporta alla mente.

Non a caso la notte del ventiquattro dicembre si posiziona nel solstizio d’inverno, quando la luce della nostra stella nana comincia a prende nuovamente il sopravvento sul buio, qui sulla terra (il cosiddetto sol invictus degli antichi Romani). Per cogliere l’origine del Natale, dunque, è necessario rifarsi alle tradizioni della cultura dell’antica Roma. Molte nostre consuetudini natalizie, invero, sono debitrici a due festività pagane molto sentite nel paganesimo latino: Il solstizio d’inverno, appunto, e i Saturnalia. Tra il 17 e il 23 dicembre si svolgevano le festività in onore del dio Saturno, protettore delle messi e delle coltivazioni. Nel periodo invernale la terra riposa (sotto la neve pane, recita un antichissimo adagio) e, di conseguenza, anche i contadini nonché gli schiavi si concedevano un intervallo di inattività in vista del prossimo raccolto. L’occasione era favorevole per avviare i festeggiamenti relativi al futuro nuovo anno solare. Per le strade di Roma era frequente imbattersi in ricchi convivi e le classi più agiate si riunivano in luoghi privati all’insegna del fasto e del godimento. Tra le gens più illuminate accadeva che, in questo periodo, gli schiavi potevano desinare insieme con i loro signori. Era anche in uso andare a trovare gli amici e i parenti portando doni, proprio come siamo soliti fare noi oggi. Le ricorrenze dei Saturnalia cadevano proprio durante il solstizio d’inverno, denominato dai Romani la Bruma, cioè quando il sole cominciava di nuovo a prendere pian piano il sopravvento sul buio. La data del 25 dicembre per questi gioiosi festeggiamenti era dovuta al calendario giuliano istituito da Caio Giulio Cesare nel 45 avanti Cristo. I giorni a seguire prendevano a riallungarsi nella luce e, grazie al Sol invictus, principale divinità del fulgore (il sole che ricominciava ad apparire per più ore al giorno), si poteva sperare che l’inverno, freddo e improduttivo, lo si poteva considerare alle spalle. Nel periodo protocristiano temendo il persistere da parte del popolo nel venerare il Sol invictus, che possiamo considerare un prodromo monoteistico, le autorità cristiane decisero di sovrapporre alla festa pagana la loro che celebrava la nascita di Gesù (l’unico e vero sole del mondo) e scelsero proprio il 25 dicembre. L’imperatore Costantino, con un decreto imperiale datato 7 marzo 321, imponeva il primo giorno della settimana come periodo di astensione dalle attività e impose che fosse consacrato al sole invitto. Il miglior sistema per cancellare una cultura non è combatterla, ma sovrapporsi ad essa. Il vescovo e letterato cristiano Epifanio di Salamina (circa 310 – 403) intuì i punti comuni tra la ricorrenza pagana e la nascita di Gesù (la rivincita della luce sulle tenebre, dal lato pagano concreta e reale, dal lato cristiano simbolo della sconfitta del bene-luce sul buio del peccato). In molte città orientali la festività era connessa con la nascita di Aiòn, figlio della vergine Kore (cfr. la vergine Maria). È interessante notare che l’Imperatore romano Aureliano, nel 274, inserì ufficialmente nei culti religiosi romani, e nei loro rituali, la festa del Dies Natalis Solis Invicti, liturgia pagana, abbiamo visto, in stretta somiglianza con il mito della nascita di Cristo. Il rito del Solis invictus commemorava istituzionalmente, a far data da quell’anno, il trionfo della luce sulle tenebre. Con ogni probabilità, proprio per sfruttare le numerose somiglianze, e per sovrapporre alla ricorrenza pagana quella cristiana, papa Giulio I (all’incirca nel 343 dopo Cristo) fissò definitivamente il 25 dicembre come data della nascita del messia cristiano. L’imperatore Giustiniano la formalizzò ulteriormente nel 529 e la rese una festa solenne dell’Impero romano d’occidente. Il Natale, come lo si festeggia oggi, è il risultato di un intreccio di usanze culturali ed è debitore sia alla mitologia giudaica sia a quella islamica sia agli antichi riti pagani latini sia alle tradizioni pagane nordiche. Un fil rouge che lega insieme tradizioni e riti diversi, ma che erano diretti a celebrare un principio comune: La vittoria della luce sull’oscurità. Anche la leggenda di Babbo Natale affonda le sue radici in un personaggio storico: San Nicola, il turco (era nato A Patara in Turchia) patrono dei bambini oltre che dei poveri e delle fanciulle meno abbienti in età da marito, vissuto nel IV secolo. Uomo di chiesa prodigo e generoso, rappresentato con una lunga barba e un ampio manto rosso bordato di verde, era solito portare doni agli indigenti a guisa del Babbo Natale che tutti noi conosciamo. Ancor prima di San Nicola, nella mitologia germanica e scandinava, è presente un altro vecchio barbuto: Odino. Raffigurato in groppa a Sleipnir, un cavallo dalle otto zampe, era in grado di volare nei cieli proprio come il nostro Santa Klaus con la sua slitta trainata da renne. È divertente constatare come i bambini nordici insaccavano i loro stivaletti con carote e fieno appendendoli accanto al caminetto affinché Slepnir se ne potesse cibare. Non ricorda la nostra tradizione di riempire le calze natalizie in attesa del passaggio di Babbo Natale? L’iconica figura che oggi si ha di Babbo Natale, allora, è il risultato di un intreccio di usanze e miti che vanno dal medio orientale San Nicola al nordico Odino e Sleipnir, storicamente raffigurata negli anni Trenta del secolo scorso dall’azienda Coca Cola.

Anche per i canti natalizi, i cosiddetti Christmas carols, che oggi i cristiani cantano nelle chiese, si devono riscontrare insorgenze pagane per lo più nordiche. Il Wassailing è la parola che riassume la consuetudine di andare cantando allegramente da una casa all’altra nel periodo del solstizio. Il termine deriva dall’augurio in lingua anglosassone waes hael che possiamo rendere con stammi bene in salute. Sembra proprio che San Francesco d’Assisi si ispirò a questi gioiosi cori per istituire la tradizione dei canti di Natale.

Anche per il bacio sotto il vischio c’è di che reperire il significato nelle antiche credenze romane, celtiche, druidiche e germanico-scandinave. Ognuna di queste culture adorava la pianta del vischio poiché considerata profondamente sacra. Nella cosmogonia romana questa essenza arboricola omaggiava il dio Saturno, prendendo parte a rituali di fertilità. Nelle credenze druidiche il vischio era legato alla pace e alla gioia di vivere tanto che, se alcuni combattenti si fossero dovuti scontrare sotto il vischio nei bosch.i, avrebbero dovuto deporre la armi per pattuire una tregua fino al giorno dopo. Il bacio sotto il vischio, dunque, racchiude una simbologia di pace e di gioia, tregua dalla conflittualità della convulsa lotta per vivere.

La tradizione di addobbare gli alberi durante le feste natalizie risente della consuetudine romana, durante i Saturnalia, di decorare con piccoli oggetti di metallo le piante fuori delle loro abitazioni. Ognuno di queste piccole guarnizioni simboleggiava o il dio Saturno stesso o i Patres penates, gli antichi spiriti tutelari della riserva di viveri della famiglia. Anche nella cultura delle remote tribù germaniche si praticava l’usanza della decorazione degli alberi con frutta e candele per rendere grazia al dio Odino durante il solstizio d’inverno.

Il culto del Natale, dunque, sembra derivare sia da tradizioni pagane sia da consuetudini cristiane e, nella sua globalità, ha facilitato lo scambio e l’assimilamento tra riti di diverse culture.

Tornando al significato più spirituale e moderno del Natale, invero, come ci ricordano i grandi scrittori, artisti che giungono spesso a centrare la verità prima degli scienziati, c’è da porsi la domanda: “Una vita senza amore che vita è?” La vita non può esistere senza amore e la ricorrenza del Natale ce lo ribadisce ogni anno.  Allora Charles Dickens, Philip van Doren Stern, Fëdor Dostoevskij o Italo Calvino, tanto per citarne alcuni, ci lanciano dalle loro righe scritte una “bussola” speciale, con un “ago” in grado di orientarci sempre verso il “nord” del bene personale e comune: il Natale del cuore al di là di qualsivoglia confessione fideistica o culturale. Seguiamo la direzione che ci segnala questo indicatore perché è quella giusta.

Dear george, remember, no man is a failure who has friends.

thanks for the wings! 

Love

Clarence

Accademia Angelica Costantiniana